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per queste ragioni citiamo l'articolo dell'avv Antonino Ciavola del 11/05/2006, molto appropriato alla mission

L’avvocato penalista e il rapporto con il cliente

Articolo 11.05.2006 (Antonino Ciavola)

L’avvocato penalista e il rapporto con il cliente

di Antonino Ciavola

 

Questo articolo riproduce la conferenza svoltasi il giorno 4 aprile 2006 presso la Scuola Forense di Catania, organizzata dalla fondazione “Vincenzo Geraci”.

All’iniziativa hanno partecipato oltre 200 allievi della Scuola, e i seguenti organizzatori:

  • Docente: Antonino Ciavola
  • Docente aggiunto per il Consiglio dell’Ordine: Edoardo Ferlito
  • Tutor della Fondazione: Deborah Incognito
  • Ha collaborato Maria Platania
  • Organizzazione logistica: Daniele Orazio Sgroi

*****

 

§1 – I primi incontri e il conferimento del mandato

Si insegna tradizionalmente che il momento iniziale, quello del primo colloquio con il cliente, è decisivo per un approccio corretto, finalizzato alla conoscenza reciproca tra la parte che chiede assistenza e il difensore nelle cui mani sono rimesse le sorti di chi gli si affida.

Sempre tradizionalmente si afferma che tale colloquio, così come i successivi, deve avvenire presso lo studio del professionista, al fine di mantenere in capo a quest’ultimo la necessaria immagine di professionalità, che dovrà essere conservata nel corso del rapporto.

Questa regola generale, nel campo penale, non sempre può essere rispettata; vi sono infatti ipotesi nelle quali il cliente è detenuto, e dunque il primo contatto avviene presso il carcere, oppure è preso non direttamente con il cliente bensì con i suoi parenti. Al di fuori di queste ipotesi, è bene che il colloquio avvenga personalmente con l’interessato, e presso lo studio del professionista.

Sul piano formale, quando ciò è possibile, la migliore dottrinai consiglia, in linea con l’art. 36, canone III, del codice deontologico, di procedere innanzi tutto con la sicura identificazione del cliente, corredando l’atto di nomina con la fotocopia di un documento d’identità.

Sul piano sostanziale, si afferma che l’avvocato dovrebbe possedere doti culturali ed umane ben superiori a quelle degli altri professionisti, dovendo essere capace di cogliere, con una sorta di analisi psicologica, i più reconditi aspetti della personalità del proprio assistito, dei testimoni, del pubblico ministero e dei giudici.

Tra i diversi tipi di cliente, merita di essere ricordata questa divertente casistica: il diffidente, l’indignato, il riluttante, il logorroico, lo sconclusionato, l’arrogante, l’intraprendente, il parente e l’addetto ai lavori; l’uno peggiore dell’altro, come soggetti umani da affrontare, ma pur sempre clienti con i quali è indispensabile trovare il giusto equilibrio.

 

§ 2 – La cordialità nei rapporti

Nei confronti del cliente, l’avvocato penalista deve saper instaurare un reciproco rapporto di conoscenza e di cordialità, ma senza sconfinare nel territorio di una eccessiva dimestichezza e familiarità. Ciò è assai difficile, potendo l’avvocato e il cliente essere amici da vecchia data, o anche parenti; solo l’esperienza può insegnare i giusti limiti, che qui possiamo esprimere ricordando il principio generale del distacco dalla lite e dal litigante, cosa che può realizzarsi anche compiendo una difesa appassionata.

Nella relazione intersoggettiva, comunque, l’avvocato deve svolgere una funzione trainante e saper trovare il giusto equilibrio tra la cordialità e il distacco, evitando in ogni ipotesi di finire succube del cliente, sia sul piano personale che sulla linea difensiva, che deve sempre essere concordata.

Questo aspetto diventa particolarmente delicato nell’ipotesi di difesa del cliente latitante.

Può accadere che in questi casi il consolidato rapporto umano induca l’avvocato a comportamenti poco chiari; se infatti è ammesso, in queste ipotesi, incontrare l’assistito al di fuori dello studio, occorre evitare che l’incontro si trasformi in disponibilità ad agevolare la latitanza stessa

Pertanto, l’avvocato non dovrà mai rendersi latore di messaggi di alcun tipo, nemmeno se apparentemente innocui, ma dovrà prestare la normale assistenza tecnica e limitare il contenuto del colloquio agli aspetti legati alle strategie difensive.

Anche nel corso dei normali rapporti professionali, comunque, l’avvocato deve mantenere il normale distacco per evitare di confondere la propria posizione con quella dell’assistito, come risulta chiaro da questo episodio:

pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante l’avvocato che, al fine di far conseguire ad altri l’impunità per il reato di contrabbando ed evitare il sequestro delle merci, offenda l’onore e il decoro degli agenti di pubblica sicurezza con l’uso di violenza e minaccia e causando agli stessi lesioni volontarie e danni all’autovettura di serviziov.

Infine, per chiudere questo punto con un paradosso, l’avvocato dovrà evitare, oltre ai rapporti economici con il cliente previsti dall’art. 35 del codice deontologico, anche i rapporti sessuali.

E’ stato infatti ritenuto deontologicamente rilevante il comportamento dell’avvocato “sorpreso in atteggiamento intimo e sconveniente con un detenuto, suo cliente, durante un colloquio tenuto in qualità di difensore presso la casa circondariale”.

 

§ 3 – Il segreto professionale

L’art. 622 del codice penale obbliga i professionisti a mantenere il segreto professionale; tale dovere è meglio precisato, limitatamente agli avvocati, dal codice deontologico che individua all’art. 9 il dovere di segretezza e riservatezza.

La formulazione del codice deontologico amplia e muta il concetto di segretezza, individuandolo non solo come un dovere ma anche come un diritto primario e fondamentale dell’avvocato.

Il dovere di segretezza e riservatezza è valido, naturalmente, per tutti gli avvocati e non soltanto per i penalisti; tuttavia è nel campo del diritto penale che il segreto professionale può comprendere anche fatti di eccezionale gravità, creando non pochi dubbi anche di ordine morale.

Come è stato acutamente rilevato, non potrebbe esistere un’attività professionale libera ed indipendente se non vi fosse questo rapporto tacito ma cosciente tra avvocato ed assistito che si realizza nella tutela del segreto.

Questo diritto/dovere prevede alcune eccezioni che sono indicate dai canoni complementari dell’art. 9.

Si tratta di ipotesi in parte relative al rapporto tra avvocato e cliente, in parte concernenti gli obblighi dell’avvocato nei confronti della società che oggi sono espressamente indicati dall’art. 7 del codice deontologico, nella versione modificata il 27 gennaio 2006.

E’ stato infatti aggiunto un canone complementare che certamente provocherà intense discussioni perchè introduce il riferimento al rispetto dei doveri che la funzione impone agli avvocati “verso la collettività per la salvaguardia dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato e di ogni altro potere”.

Le prevedibili contestazioni che questa aggiunta comporterà riguardano la previsione di una sorta di interesse collettivo, superiore a quello della parte assistita, che in qualche modo scinderebbe il rapporto di fiducia davanti a situazioni di particolare gravità.

Le eccezioni previste dall’art. 9 riguardano, per quanto interessa il collegamento con l’art. 7, la necessità di impedire la commissione, da parte dello stesso assistito, di un reato di particolare gravità.

Vi sono infatti ipotesi nelle quali il cliente non chiede assistenza per fatti già avvenuti e a lui contestati, ma per ottenere informazioni riguardanti reati che intende commettere.

In questo caso i redattori del codice deontologico si sono ispirati all’analoga regola vigente negli Stati Uniti che prevede l’obbligo di rivelare il segreto all’autorità giudiziaria quando il male minacciato attenga alla persona, e non quando riguardi il patrimonio.

La nostra regola è stata però formulata in modo flessibile con un generico riferimento al reato di particolare gravità, lasciando così all’interprete la valutazione dei singoli casi.

Il codice deontologico precisa che la segretezza deve essere rispettata anche nei confronti degli ex clienti e persino nei confronti di chi si rivolga all’avvocato per chiedere assistenza senza che il mandato sia accettato.

Può accadere che un potenziale cliente si presenti nello studio ed esponga alcuni fatti, e che l’avvocato non accetti il mandato per mancanza di rapporto fiduciario, oppure che il soggetto non condivida la linea difensiva proposta dal legale.

In questo caso il rapporto di clientela non sorge ma i fatti riferiti all’avvocato restano coperti dal segreto.

Alcuni classici esempi di violazione del segreto professionale sono rinvenibili in giurisprudenza.

In una occasione il professionista, avendo appreso dal proprio cliente i propositi criminosi in danno di controparte, utilizzò le informazioni riferendole alla stessa controparte per ottenerne una remunerazione in denaro.

Tale comportamento è stato ritenuto disdicevole e sanzionato con la sospensione per un anno.

La seconda ipotesi è ancora narrata dal DANOVI e nel caso di specie l’avvocato, con un comportamento di segno positivo, ha rivelato di aver appreso da un cliente che l’omicidio di un benzinaio era stato compiuto da un componente di un movimento politico; la rivelazione del segreto professionale si è resa necessaria poiché il processo stava per concludersi con la condanna di un innocente.

Il comportamento dell’avvocato fu valutato dal Consiglio dell’Ordine di Milano che contestò all’avvocato la violazione del segreto professionale e l’affermazione ai giudici dell’innocenza dell’imputato basata solo sulla propria parola.

Il Consiglio dell’Ordine di Milano stabilì di assolvere l’incolpato, a differenza del Consiglio dell’Ordine di Catania che, in una fattispecie pressoché identica (risalente a moltissimi anni addietro), punì il proprio iscritto con la radiazione.

Anche in quella ipotesi il professionista, appresa la verità dei fatti da un testimone che era stato pressato per rendere una deposizione non veritiera, ascoltò la propria coscienza violando il segreto professionale, evitando così la condanna di un innocente.

Dopo alcuni anni di privazioni, l’avvocato protagonista dell’episodio fu riabilitato e nuovamente iscritto nell’albo professionale.

L’episodio è stato commentato da Alfredo De Marsico con queste parole, che qualcuno potrà non condividere ma che costituiscono un importante spunto di riflessione: esse testimoniano l’interiore tormento che, a volte, coinvolge l’avvocato penalista:

La coscienza dell’avvocato deve identificarsi in ogni momento con la coscienza morale dell’uomo e nessuna responsabilità tecnica può far derogare da questo supremo imperativo etico che riassume la dignità dell’uomo e dell’avvocato”.

Quanto diremo nel prossimo paragrafo potrà apparire in contraddizione con queste parole; sta al singolo professionista, con l’esperienza, trovare il giusto punto di equilibrio.

 

§ 4 – L’avvocato e la verità

Questi episodi che abbiamo ricordato ci dimostrano quanto sia difficile valutare i casi concreti e soprattutto quanto sia arduo individuare il limite tra il segreto professionale e il vincolo dell’avvocato nei confronti della collettività oggi previsto dall’art. 7 del codice deontologico.

Più in generale, è sempre stato dibattuto il rapporto degli avvocati con la verità, e tale dibattito assume rilevanza nella valutazione del rapporto tra avvocato e cliente e nell’immagine dell’avvocato di fronte alla società.

Spesso infatti il comune cittadino chiede all’avvocato, nel corso di conversazioni salottiere, come possa egli difendere anche persone sicuramente colpevoli di orrendi delitti senza dover scendere a patti con la propria coscienza.

Il dubbio in questione non è però limitato al comune cittadino, ma a volte si coglie anche negli studi di etica.

Qualcuno, ad esempio, si è posto il problema della difesa della cosiddette cause ingiuste e quindi se sia lecito per un avvocato assumere la difesa dei terroristi o dei mafiosi di “sicura colpevolezza”.

Ci si è chiesti ancora se il patrocinio dell’avvocato si debba spingere fino al punto di chiedere l’assoluzione di individui certamente colpevoli e particolarmente pericolosi per la società.

L’equivoco insito in queste domande nasce dall’erronea percezione dell’attività difensiva come difesa del reato in sè, quasi che l’avvocato difensore dello stupratore o del pedofilo sostenesse la correttezza del comportamento di chi stupra ed abusa.

In realtà è bene precisare, utilizzando il titolo di un paragrafo di un libro che ogni penalista dovrebbe leggere, che l’attività dell’avvocato riguarda la difesa dell’imputato, e non del reato; e che non è ammissibile in capo ad un avvocato il rifiuto aprioristico della difesa di chi è accusato di reati particolarmente infamanti.

Ferma restando la possibilità di rifiutare l’accettazione di un incarico quando manca il rapporto fiduciario, commette un grave errore l’avvocato che per principio rifiuti di difendere stupratori, pedofili, violenti e simili; egli in realtà difende l’imputato – presunto innocente – di quel reato, e non certo il reato stesso.

A ben vedere, anzi, proprio la difesa dell’essere più abbietto, “sicuramente” colpevole magari perchè colto in flagranza di reato (ma non c’è mai la certezza assoluta), rappresenta un momento elevato della funzione difensiva, poichè in quel caso l’avvocato dimostra che chiunque, anche se colpevole di reati infamanti, in un sistema democratico ha egualmente diritto ad un giusto processo, alle sue garanzie e a tutti i vantaggi che la legge stessa gli concede, poichè la legge è superiore alle emozioni di piazza e al desiderio, che talvolta si diffonde nella collettività, di giustizia sommaria.

L’avvocato, insomma, quando accetta un incarico deve difendere l’imputato senza mai dimenticare la presunzione di innocenza, ed anzi ricordandola ai giudici in ogni momento; lo stesso autore già citato ricorda che nemmeno la stessa confessione dell’imputato è una prova da sola sufficiente, potendo essere non veritiera.

Ed allora, se l’avvocato penalista riuscirà a salvare il cliente dalla condanna anche quando tutte le prove sembrano univoche, non dovrà mai essere additato dall’opinione pubblica come un complice, ma solo come un difensore dei diritti.

La verità nei processi non è quella assoluta, bensì quella che emerge dagli atti; e l’avvocato, al termine del dibattimento, deve prendere le conclusioni secondo quelle che ne sono le risultanze, e non in base al proprio eventuale personale convincimento della colpevolezza del proprio assistito, nè in base all’eventuale confessione rivelatagli sotto il vincolo del segreto.

In sostanza, all’esito di un processo emerge dagli atti e dalla sentenza quella che è stata definita una “verità convenzionale”, che è la scelta finale tra le varie opzioni, necessariamente rimessa all’autorità del giudice.

Il processo, allora, conduce ad una verità probabile, nella quale l’unica certezza assoluta è data dal rispetto delle regole fissate dalla legge per ciascuno dei suoi attori; all’interno di tali regole, quella dell’avvocato è di difendere il proprio assistito, utilizzando solo le prove a favore (e non certamente quelle contrarie) ed evitando di introdurre prove che egli conosce come false, nel rispetto di quanto prevede l’art. 14 del codice deontologico.

Non dobbiamo dimenticare che nel nostro sistema processuale penale l’imputato non ha alcun obbligo di dire la verità ne di confessare i fatti a lui sfavorevoli. E’ una scelta ben precisa del legislatore, un diritto garantito che ovviamente si riflette anche sulle strategie della difesa.

Naturalmente, una cosa è il diritto dell’imputato di tacere o mentire, altra è la dichiarazione che l’avvocato faccia impegnando la propria parola: si tratta di comportamenti che in linea di massima devono essere evitati, ma quando ciò sia necessario le dichiarazioni dell’avvocato devono essere veritiere.

L’ipotesi classica è presa dalla giurisprudenza disciplinare e riguarda il caso di un avvocato che ha dichiarato al giudice, durante l’interrogatorio di due imputati nomadi, suoi assistiti, che gli stessi non erano imputabili perchè minori di anni 14 e che di tale circostanza disponeva documentazione.

La dichiarazione è risultata falsa ed il comportamento dell’avvocato è stato sanzionato con 4 mesi di sospensione dall’esercizio della professione

Altra ipotesi di dichiarazione falsa resa dall’avvocato è stata valutata dal Consiglio dell’Ordine di Catania ed è certamente singolare: il professionista aveva infatti favorito l’accesso al carcere di una persona non autorizzata, dichiarando contrariamente al vero che si trattava di un suo praticante, allo scopo di farla incontrare con il proprio cliente.

Anche in questo caso il professionista è stato sanzionato, con la sospensione per tre mesi, avendo impegnato la propria parola con false dichiarazioni.

Al di fuori di queste specifiche ipotesi, l’avvocato penalista deve fare tutto ciò che la legge gli consente per far ottenere al suo cliente il miglior risultato possibile.

Leggiamo spesso sui giornali di presunti colpevoli (mentre tutti gli imputati dovrebbero essere presunti innocenti) che riescono a salvarsi dalla condanna perchè l’avvocato è riuscito a far maturare la prescrizione, o perchè con un cavillo ha fatto annullare prove raccolte in modo irregolare.

Il commento a queste sentenze è spesso negativo nei confronti dell’avvocato, che in realtà non ha fatto altro che tutelare i diritti di un presunto innocente.

Se il sistema giudiziario non riesce a terminare i processi in tempo ragionevole, e se il sistema investigativo non riesce a raccogliere prove valide, la colpa non è dell’avvocato; qualche volta l’attività difensiva potrà comportare anche l’assoluzione di un colpevole, ma qualche altra volta eviterà ad un innocente una condanna ingiusta.

 

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